lunedì 27 luglio 2009

Il Paese degli Uomini Integri

In un giorno qualunque del mese di ottobre di alcuni anni fa, alla guida di un’automobile malandata, coperta di polvere e di fango indurito e con le sospensioni che gemevano, percorrevo lo stradone suburbano che conduceva al centro abitato di Bobo Dioulasso, in Burkina Faso La disfatta meccanica del mezzo era stata causata da una lunga, solitaria corsa sulla pista del Sahel che da Gao in Mali, scende a sud verso il Golfo di Guinea Le mie condizioni fisiche non erano migliori di quelle dell’auto e, in prossimità della meta, un enorme sfinimento si era impadronito di me Con la vista annebbiata, come se ancora non fossi uscito dalle nuvole di polvere e di sabbia della pista, i sobborghi di ‘Bobo' mi apparivano desolati, lo stradone che stavo percorrendo era a tratti rivestito di asfalto decrepito e a tratti in terra battuta, lungo i suoi lati si allineavano edifici scalcinati e alberi dal fogliame verde pallido e polveroso Rigagnoli di acqua nera scorrevano dai viottoli laterali, bambini seminudi si rincorrevano negli spiazzi tra le case, gli scarsi passanti deambulavano come senza meta Mentre guidavo, ripensavo alla mia entrata di poche ore prima al valico di frontiera di Faramana, tra il Mali e il Burkina Sulla strada che conduceva al casermone bianco della dogana, chiuso da una barra di legno dipinta a strisce bianche e rosse, sostavano vari autocarri e alcune vecchie corriere impolverate, strapiene di passeggeri Nell’ufficio della dogana, uno stanzone grigio e disadorno, un funzionario seduto dietro un tavolino sbilenco aveva esaminato il mio passaporto come se non ne avesse mai visto uno Un altro ispettore aveva infilato le sue mani nel mio bagaglio frugando alla ricerca di non sapevo cosa, poi mi aveva rivolto domande su domande Alcuni soldati che imbracciavano antiquati schioppi sostavano poco distanti e osservavano la scena Alla fine il funzionario, con un gran tonfo sul tavolinetto traballante, aveva apposto un timbro vistoso al passaporto e mi aveva gesticolato di andarmene Ero ripartito, dopo un paio di chilometri di pista ad un altro posto di blocco, un soldato in uniforme mimetica e basco rosso, armato di mitraglietta corta, mi aveva fermato, controllato i documenti, fatto domande A poca distanza altri militari armati di mitragliette sorvegliavano la strada Dal posto di frontiera fino a Bobo avevo superato non meno di una decina di posti di blocco controllati da militari Che cosa stava accadendo in Burkina Faso, nella ‘terra degli uomini liberi’ In quel momento poco m’importava e tutto ciò che volevo era un albergo, un pasto e dormire A riparare radiatore, sospensione, carburatore, ad applicare linimenti alle giunture dolorose delle parti meccaniche e a curare il rantolo asmatico del motore avrei pensato l’indomani Una sosta a Bobo non era veramente prevista nel mio itinerario, per nulla al mondo avrei voluto fermarmi più del necessario in quella borgata senz’anima E finalmente eccolo l’albergo, vecchiotto, modesto, ficcato in fondo ad una strada secondaria non asfaltata Fermai l’auto su di uno spiazzo e ne uscii tutto rattrappito e come incatramato L’albergo era una costruzione di forma cubica tipo bunker, con un intonaco lebbroso e inferriate alle finestre e al portone dipinte di viola Al momento di entrare, ecco che ‘lui’ arrivò
Il terrore di Bobo Dioulasso
Lune era un bambino di forse dieci anni, vestito di una maglietta azzurra bisunta e sdrucita, pantaloncini di un grigio indistinto, ciabattine rosse di plastica slabbrate Aveva gambe e braccia carnose, busto tutto d’un pezzo dei bambini impuberi e una faccia tonda con occhi neri e lucidi come di ossidiana Seppi in seguito che Lune era il nomignolo che la gente del posto gli aveva dato per via della rotondità della sua faccia da luna piena Dopo un ‘bonjour’, Lune passò subito agli affari e mi presentò il suo programma Con quattro frasi in francese ripetute più e più volte il monello si offriva di sorvegliare la mia auto, molto bene e per tutto in tempo che sarei rimasto in quel luogo A mia volta, sottoposi il piccolo guardiano d’auto ad un breve, futile interrogatorio “Tu sorvegli molto bene la mia auto e dove abiti nessuno sorveglia la mia auto bene come te sì, ma dove sono i tuoi genitori, il tuo papà, la tua mamma come sorvegli molto bene le auto di tutti gli stranieri che vengono qui va bene, ma dov’è la tua casa, chi provvede a te come nessuno straniero ha mai perduto la sua auto perché tu la sorvegli” Il frasario di Lune era limitato e non seppi cavargli di bocca informazioni su casa e famiglia Con i suoi dieci anni di età, Lune girovagava per le strade di Bobo, abbordava con insistenza gli automobilisti, di preferenza stranieri, offrendosi come guardiano improvvisato Forse, a tutti gli effetti, una casa e una famiglia il monello non l’aveva Forse Lune era un bambino di strada
La notte
L’alloggio che mi assegnarono era una stanza disadorna che aveva odore di muffa, con un letto sgangherato, un materasso smilzo come una coperta e due treppiedi con un catino e una brocca Dormii come un macigno immobile tutta la notte Al mattino un raggio di sole mi svegliò rivelandomi lo stanzone squallido, dalle pareti verdognole Rimasi disteso sul letto come un cieco, sordo e muto, rimuginando gli avvenimenti del giorno precedente e ripensando a tutti quei soldati in uniforme mimetica e basco rosso che pattugliavano le strade Poi ad un tratto mi venne alla mente Lune, la sua piccola faccia tonda, e la mia automobile Saltai fuori dal letto, feci una rapida toeletta (quei treppiedi con quei catini), e dopo una colazione a base di caffé allungato, pane stantio, margarina giallognola e marmellata troppo rossa per essere vera, mi precipitai fuori dall’albergo La mia auto giaceva come morta dove l’avevo lasciata, più sporca e infangata che mai Di Lune, il bambino-posteggiatore, non c’era traccia
Il mio regno per un carburatore
Entrai in auto e girai la chiave d'accensione Il motore si avviò con un rombo assordante e dal retro dell'auto si levò una nube di fumo Chi ha letto il libro ‘Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta’, sa che certi manufatti meccanici possono avere qualcosa che assomiglia ad un'anima Secondo questa premessa, i circuiti elettrici di un'auto sono verosimilmente percorsi da un'energia simile a quella cerebrale umana, e ciò che muove valvole e pistoni non è solo tanto la forza cinetica, quanto uno spirito folletto, invisibile ma sempre presente Il carburatore della mia auto era incrostato per via della sabbia del Sahel, che era penetrata nei suoi recessi, con il calore si era come caramellizzata e aveva convertito il carburatore in un budino Ora il dispositivo non reagiva più al comando del pedale e si manteneva ad un regime tra la media e il massimo dei giri Il motore urlava girando furiosamente a vuoto e il carburatore, ridotto a mal partito ma ancora vivo, mi odiava e urlava anche lui: ‘ieri hai approfittato di me sulla pista di Gao, ed oggi è così che mi sento’ Innestai con furia la leva del cambio e un istante prima che l'auto si avviasse, incorniciata dal mio finestrino aperto apparve la faccia tonda di Lune nel frastuono del motore non sentivo le sue parole ma capivo che il ragazzino si stava ricandidando anche per quel giorno come sorvegliante della mia auto Mollai la frizione e l’auto fece un balzo in avanti, gemendo e mi allontanai Alla ricerca di un riparatore d’auto, ne scovai uno nei pressi del mercato all'aperto di Bobo L’officina di riparazioni, ricavata in una casaccia di cemento bigio, era un piccolo inferno di motori sventrati e con le viscere sparse al suolo, in cui, nel calore già soffocante, alcuni meccanici in tuta si muovevano pigramente, come rassegnati Spiegai il guasto del carburatore e quelli mi dissero ‘nessun problema’ Poi indicai tutti gli altri guasti di sospensioni, sterzo, accensione, alimentazione benzina, carrozzeria, e quelli mi ripeterono ‘nessun problema’ Prima di andarmene a piedi, chiesi loro il perché di tutti quei militari armati nelle strade, ma la sola risposta fu 'problemi, problemi di politica' Fuori dall'officina, presi a camminare lungo il viale che conduceva al mercato, quando ad un tratto qualcuno mi trotterellò al fianco Lune ancora lui
Cooperazione allo sviluppo
Il ragazzino mi aveva seguito a distanza lungo il breve percorso dall'albergo all'officina ed ora voleva sapere quando la mia auto sarebbe stata riparata, perché lui potesse di nuovo sorvegliarla Il frasario di Lune si era allungato e si profilava la possibilità di una conversazione, di cui però non avevo nessuna voglia Per liberarmi di lui ebbi l'idea di adottarlo provvisoriamente per quel giorno o per la durata della mia sosta forzata e inopinata in Bobo Dioulasso La misura dell’adozione avrebbe capovolto il rapporto tra Lune e me, che da imbonitore asfissiante/cliente sarebbe diventato figlio/padre benevolo Misi subito in atto l’idea e chiesi a Lune se aveva voglia di mangiare Che domanda Cercando un ristorante, lungo la strada scoprii una minuscola insegna con il disegno di un cuoco Lo stanzone del ristorante sembrava essere stato devastato da un’incursione militare, tanto tutte le suppellettili apparivano stravolte; il pavimento di cemento era cosparso di detriti, le sedie e i tavoli di ferro rugginoso erano gettate qua e là Ci sedemmo l'uno di fronte all'altro, Lune volle un’insalata, io ordinai del riso bollito A distanza di anni, ancora oggi ho nitida nella mente l’immagine del bambino che si era infilato in bocca un cespuglietto d’insalata verde crespa, ricordo come questa gli riempiva le guance e gli usciva dalla bocca come se vi fosse cresciuta dentro Lune volle mangiare solo insalata, ma poi i suoi occhi lucidi e intenti si fissarono su di una quadretto pubblicitario, appeso alla parete, con l'immagine di un gelato Gli ordinai un bel gelato a tre palle e rimasi a guardarlo mentre lo mangiava
Il Ché africano
Quel pomeriggio, in attesa che la riparazione dell'auto venisse portata a termine, andai al mercato a fare acquisti Avevo bisogno di un po’ di tutto: scatolame, acqua minerale in bottiglie di plastica, un paio di magliette, calzini, cerotti, aspirine, e un giornale, ecco sì, un bel giornale che riportasse le ultime notizie del Burkina Faso, del ‘paese degli uomini liberi In una straduccia secondaria, tra due file di brutte case in cemento nudo con i tetti di lamiera arrugginita, c’era un emporio commerciale, uno di quei posti dove si vende di tutto Il commesso era un francese bilioso, il quale senza una parola e senza guardarmi andò nel retro a prendere ciò che mi serviva, infilò il tutto in una busta di carta da pacchi e gettò questa sul bancone di legno consunto Quel fondaco scalcinato in cui lavorava a malincuore era emblematico della sua condizione di europeo insabbiato ai tropici; la sua faccia astiosa mi ricordava quella dell'analogo personaggio dell’europeo decaduto e in sfacelo fisico ritratto da Céline nel suo ‘Viaggio al fondo della notte’ Prima di andarmene mi azzardai a chiedergli, fingendo la solita aria di complicità che s’instaura tra gli europei espatriati in Africa, la ragione della presenza di pattuglie militari ovunque Il francese dispeptico, dopo la premessa 'come è possibile che lei non sappia', m'informò che due giorni prima il presidente del Burkina Faso, il capitano Thomas Sankara, era stato assassinato nel corso di una rivolta organizzata da membri della giunta militare da lui stesso presieduta Mi trovavo in Burkina Faso da due giorni, proprio quando il paese si trovava in mezzo ad un colpo di stato ancora in corso Era il 17 ottobre 1987, e Thomas Sankara era sparito di scena il 15 ottobre Poi, ad un tratto, ebbi un lampo d'intendimento: il capitano Thomas Sankara il Ché africano Thomas Sankara era morto
L’angelo nero
Nella capitale del Burkina Faso, Ouagadougou, il capitano 34enne Thomas Sankara, arrivato alla presidenza grazie a un colpo di stato, si trovò a governare una nazione assediata dalla carestia e dalla corruzione Subito Sankara avviò una politica rivoluzionaria ispirata a quella cubana e in soli quattro anni di governo riuscì a realizzare riforme sociali epocali Sankara fece costruire in ogni villaggio scuole, ambulatori, piccoli dispensari e magazzini per i raccolti, si oppose al feudalesimo rurale che permetteva ai capi-villaggio di sfruttare i contadini, si sforzò di emancipare le donne e di moralizzare la vita pubblica Sankara non fu solo un Ché africano, ma anche un Gandhi nero: quando non indossava l’uniforme militare, Sankara vestiva il tipico abito verde della fabbrica di tessuti Faso dan Fani, fatto col cotone ruvido burkinabé Sankara era anche un populista e rifiutava di vivere al di sopra delle possibilità della gente comune, e per abbattere i privilegi della classe dirigente fece vendere le auto blu ministeriali, sostituendole con semplici utilitarie Renault 5 Tuttavia le potenze occidentali erano preoccupate per le amicizie di Sankara: il presidente burkinabè frequentava “gente pericolosa” come Qadafi, Fidel Castro, l’etiope Menghistu e il mozambicano Samora Machel e si era fatto parecchi nemici anche tra i potenti capi villaggi della sua stessa terra L’epilogo della sua parabola personale si celebrò il 17 ottobre 1987, due giorni prima che io facessi il mio ingresso in Bobo Dioulasso con la mia malandata autovettura Solo la conversazione casuale con l’oscuro commesso di un tetro bottegone mi aveva informato della fine dell’idole di una intera generazione di giovani africani Una immagine ufficiale di Sankara ritrae il capitano seduto su di una poltrona a fiori gialli e marroni, in tenuta mimetica, con spallette, decorazioni e basco militare rosso Il volto di Sankara è grave, sereno, fiducioso, ironico Il suo avambraccio destro è posato sul bracciolo della poltrona, la mano è poggiata sulla bocca, in una atteggiamento che ricorda il ‘Pensatore’ di Rodin Sarebbe tuttavia un errore definire Sankara solo un pensatore, dato che il capitano era uno che i fatti li faceva eccome.